Solitamente quando si pensa alla parola psiche, l’associazione che viene fatta è: mente = psicologo, come se questa figura fosse la base imprescindibile, l’unica abilitata ed autorizzata a poterla trattare e le altre professioni non fossero altro che delle sottocategorie di psicologi più esperti, dediti a quell’unico ambito.

Nel caso in questione l’errore più classico che solitamente viene fatto è proprio identificare il mental coach e lo psicologo in un’unica persona. Nulla di più sbagliato. Per potere fare un po’ di ordine nella vostra testa, per capire meglio chi siano e cosa facciano, andiamo ad analizzare alcune delle differenze più nette tra queste due professioni.

Partiamo col dire che, sebbene lo psicologo e il mental coach possano apparire due figure molto simili, vi è subito una prima diversità: la formazione. Il primo ha dovuto passare cinque anni chino sui libri per laurearsi in psicologia e conseguire una specializzazione o un master, a seconda dell’ambito lavorativo prescelto. Al contrario il secondo, per esercitare questa attività, non necessita di una laurea o quanto meno non è obbligatoria nel campo della psicologia.

 

Sono diversi il mental coach e lo psicologo perché il primo non è un analista, non ha nulla a che fare con tutto ciò che è patologico, non si occupa di disturbi mentali, nonostante la parola possa indurre erroneamente a pensarlo. Se un atleta ha quindi problemi alimentari, non ha senso che si rivolga ad un mental coach. Il fatto che un individuo possa avere alcune problematiche, gravi o meno che siano, non implica che, essendo uno sportivo, possano essere curate da uno che si occupa di sport. L’aiuto di cui necessità è ben più impegnativo, richiede un’attenzione maggiore.

Analogamente al punto precedente, il mental coach e lo psicologo operano su piani diversi. L’obiettivo di un coach non è quello di analizzare il lato più oscuro di una persona, scavare nel subconscio alla ricerca di qualche trauma pregresso o del perché di un dato comportamento; l’attività che svolge, infatti, è ben più semplice. “Hai un problema? Un problema reale? Benissimo. Io ti aiuterò a capire come fare a risolverlo, ti darò quegli strumenti necessari per comprendere che in realtà quella data cosa puoi farla benissimo, è solo un blocco della tua mente e il mio compito sarà proprio quello di sbloccarla”. L’analista, invece, è portato ad indagare sul perché, su che cosa induce il soggetto a comportarsi  in quella data maniera, su ciò che accaduto prima. Il mental coach e lo psicologo, dunque, operano su scale temporali diverse: presente/ futuro vs passato.

Il mental coach, a differenza dello psicologo, non instaura un legame di dipendenza, anzi mira a far riconoscere la situazione in cui il soggetto si trova, in modo che quest’ultimo possa agire poi da solo. È un’attività attiva, non passiva, non esiste il classico lettino su cui adagiarsi e aspettare che il medico gli riveli il suo problema.

Tra il mental coach e lo psicologo può essere gradita più la presenza di questo “allenatore mentale” poiché è più probabile che sia un ex atleta, qualcuno che abbia avuto a che fare con quel determinato sport e quindi più consapevole di quello che un giocatore può provare emotivamente, delle emozioni descritte durante gli incontri, perché quasi certamente le avrà vissute in prima persona.

Capire, dunque, se sia preferibile avvalersi dell’aiuto di un mental coach piuttosto che di uno psicologo, sta essenzialmente all’atleta stesso o a chi gli sta accanto. Bisogna valutare se il sopporto di cui necessità è legato a patologie piuttosto che semplice desiderio di migliorare le proprie prestazioni, di trovare la soluzione per affrontare al meglio la gara o per migliorare il proprio rendimento atletico.