Le relazioni oggi sono più digitali che umane, ma l’azienda rimane un organismo vivente formato da persone, quindi occorre trovare il corretto compromesso tra analogico e digitale.
Il tessuto industriale italiano è costituito per la maggior parte da micro e piccole imprese poco capitalizzate e in prevalenza a gestione familiare. Le imprese familiari, soprattutto se di successo, hanno indubbi vantaggi: sono flessibili, sono degli ottimi laboratori di imprenditorialità e creano una fitta rete di relazioni nel territorio; però presentano anche punti deboli.
I problemi del quotidiano richiedono infatti azioni pressoché immediate, ma la rapidità decisionale del fondatore-leader carismatico talvolta diventa uno stile di vita che non lascia spazio né alla riflessione strategica di medio-lungo termine né all’analisi dei reali fabbisogni organizzativi.
L’imprenditore di “vecchio stampo”, che per ragioni anagrafiche appartiene alla specie in via di estinzione dei “nativi analogici”, tende a costruire attorno a sé una struttura compatta, all’interno della quale i ruoli sono poco definiti. I sistemi di gestione e soprattutto di comunicazione non sono stati adeguati alla complessità aziendale che nel corso degli anni è inevitabilmente e costantemente aumentata, passando dalle modalità analogiche a quelle digitali.
In generale, si osserva la prevalenza di un atteggiamento di “chiusura” rispetto all’esterno e la possibilità di aprire il capitale a terzi, passando dalla “gestione familiare” al “controllo familiare”, ossia affidando la gestione a manager professionisti (esterni alla famiglia), pur mantenendo la maggioranza, è una soluzione vista con grande diffidenza. La carenza maggiore è la quasi totale assenza di pianificazione del ricambio generazionale, al vertice come nella proprietà, nonostante si tratti di una fase cruciale per la vita dell’azienda in quanto l’avvicendamento al comando comporta anche un cambiamento delle strategie, dell’organizzazione e dell’assegnazione delle responsabilità.
La resistenza al cambiamento è forte ma la capacità di padroneggiare questo tema dovrebbe entrare a pieno diritto nell’ambito dei “doveri” imprenditoriali. È facile invece che il problema venga rimandato sine die, nell’attesa di un giorno fatidico in cui si possa “discuterne seriamente”, a conferma di un processo che ha sì il peso della svolta storica, ma che nel quotidiano si gestisce con la politica dei piccoli passi.
Il sogno e la sfida di ogni imprenditore che ha alle spalle una famiglia che lo sostiene, è da sempre quello di riuscire a scoprire e coltivare nell’ambito della rete dei parenti più stretti (figli o nipoti che siano, ma nel seguito parlerò, per praticità, solo del rapporto tra padri e figli) almeno un nuovo talento, un “imprenditore in erba”. Non è escluso che il senior custodisca già da tempo in cuor suo l’idea precisa della successione, ma raramente lascia intendere i suoi pensieri; la sua attesa delle “scelte definitive” che faranno i figli è, quindi, carica di tensione, anche perché se nessuno vorrà seguire le orme del padre lui sa che dovrà pensare a una cessione, parziale o totale, dell’azienda, e, comunque vada, dovrà abbandonare la gestione. La successione in questi casi non rari non è quindi il risultato di una pianificazione magari realizzata nei minimi termini con l’aiuto di un business coach: ma è vissuta come una sorta di “destino già scritto” dell’azienda di famiglia, da accettare quando sarà il momento. Se poi accanto alle esigenze dell’impresa si impongono gli affetti familiari e se il patrimonio personale e quello aziendale sono consistenti, l’avvicendamento è ancora più complicato.
Dal suo successore, l’imprenditore si aspetta che sia capace di concepire e realizzare innovazione, portando quella ventata di modernità e di nuova tecnologia digitale che un po’ a lui fa paura, ma l’auspicio è che riesca a farlo creando nel contempo consenso attorno a sé. Il “consenso spontaneo” è importante, perché non è facile distinguere fin da subito tra la vera leadership del giovane e una sorta di “sudditanza psicologica” degli anziani. Gli equilibri interni di natura relazionale sono assai delicati (e questo vale per ogni organizzazione), sia perché da un lato i nuovi arrivati si sentono costantemente sotto l’occhio di un giudizio spietatamente critico, sia perché dall’altro lato i componenti storici dell’azienda potrebbero manifestare la tendenza a guardare le nuove leve quasi con timore, inquadrandole più come “figli di” che non come giovani preparati e capaci.
Il conflitto tra le generazioni, comunque, anche se gestito e mitigato opportunamente, esiste ed è fonte di tensione più per quanto attiene ai tempi, ritmi e stili di vita degli junior che non alle dinamiche strettamente aziendali.
Lo stile di vita lavorativo dei figli, infatti, non corrisponde mai, salve eccezioni rare, a quello dei padri: il senior attivo e dinamico ritiene “normale da una vita” dedicare l’intera giornata, e magari le feste, al lavoro; il figlio, all’opposto, per quanto possa essere ambizioso e tenace, a fatica riesce ad adeguarsi a ritmi serratissimi senza sentirsi frustrato e, in qualche misura, privato dei suoi interessi personali (sport, tempo libero, amici e affetti). Il padre cerca di trasmettere i suoi valori (spirito di sacrificio; risparmio; umiltà, che significa anche “sporcarsi le mani” quando serve; capacità di rischiare), quelli acquisiti “in fabbrica” nel corso di decenni, ma se non comprende che la concezione del lavoro e i valori del figlio sono collocati su livelli diversi, la comunicazione subisce una frattura difficile da sanare, ed entrambi si accusano reciprocamente di non capirsi. Il successore invece più che affrontare conflitti, ha bisogno di sostegno per poter definire i propri obiettivi e per costruire la sua visione dell’azienda.
I figli, sia chiaro, riconoscono ovviamente grandi meriti ai loro padri imprenditori, soprattutto se questi hanno costruito un piccolo impero dal nulla, ma l’ammirazione non è indenne da qualche critica. Intendiamoci: i figli partono da una preparazione scolastica di base e tecnica (conoscenze informatiche, lingue straniere, strumenti di pianificazione e controllo eccetera) adeguata ai tempi (e i loro padri si sforzano di capirlo, anche se un po’ temono ciò che comprendono poco), ma pare che non sappiano più “navigare a vista”, che manchi loro quel carattere, quel “fiuto” imprenditoriale che al di là degli “strumenti” consente di rischiare al momento giusto.
C’è chi afferma che manca qualcosa alle generazioni di “nativi digitali”, forse in termini di leadership, nel saper scegliere intorno a sé una squadra vincente, un gruppo di persone affiatate che condividono visione e obiettivi aziendali. È innegabile che le relazioni oggi sono più digitali che umane, ma l’azienda rimane un organismo vivente formato da persone, quindi occorre trovare il corretto compromesso tra analogico e digitale.
La successione è dunque un evento da gestire e pianificare, per far sì che possa avvenire un lento scambio tra l’esperienza del padre e la mentalità innovativa e un po’ ribelle del figlio. L’imprenditore dovrebbe trovare la forza per individuare un coach in grado di guidare le parti nel processo di insediamento e trasmissione delle responsabilità.
Il coach dovrebbe riuscire nel difficile compito di motivare i padri a trasferire la loro conoscenza ai figli, e a questi ultimi dovrebbe far capire che è importante imparare il più possibile dai padri, anche se a entrambi l’esercizio costa sia in termini di tempo sia di orgoglio. Per ottenere questo risultato, le due generazioni dovrebbero essere aiutate a comunicare usando un linguaggio condiviso, un misto tra analogico e digitale, perché è facile che l’incomprensione iniziale muti rapidamente in diffidenza o scetticismo.
Infine, il coach dovrebbe aiutare gli junior a crescere per costruire sé stessi e a fissare obiettivi ambiziosi e di sfida, guardando sì al passato e magari celebrandolo, ma evitando che diventi ostacolo o zavorra per il futuro.
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