Mi si dice, giustamente, “lo stadio olimpico è sempre pieno, la gente segue con passione, i giocatori per la maggior parte militano nei campionati esteri e sono compagni di club di coloro i quali, senza dannarsi troppo, li battono regolarmente, gli sponsor si rincorrono per farsi vedere al fianco della nazionale, le TV trasmettono le partite, i giornali ne parlano… perché non vinciamo?
Anche perché questa spinta passionale e in parte modaiola non durerà in eterno e già le prime avvisaglie di un calo di passione del colorato pubblico del rugby si stanno vedendo, fra poco tutta questa attenzione scemerà e allora sì saranno dolori!!

Tutto vero. Quindi perché non vinciamo?

Le tesi si rincorrono, c’è chi dice che è colpa dei giocatori, chi degli allenatori, chi della federazione e chi del calcio o del basket che ci prendono tutti gli atleti più grossi.

 

Non voglio ergermi a Solone del rugby, non ho mai sopportato i portatori della verità ma io una mia idea ben precisa me la sono fatta. Anzi, da buon romano, me allargo… quello che sto per dire lo potrei estendere a molto dello sport italiano del momento.

Il rugby (lo sport) italiano vive nel passato. E’ vecchio, non saggio, solo vecchio! Legato alla cultura dell’orticello, al piccolo tornaconto personale, al tutto e subito: non si pensa in grande, non si pensa alla totalità dell’aspetto sportivo, alla sua importanza per la crescita di giovani ed alle volte non si pensa proprio!

 

Io da coach ho imparato che la sconfitta non è mai colpa dei giocatori. Da atleta pensavo che le sconfitte fossero colpa mia e dei miei compagni, non considerando per nulla l’ambiente che mi circondava ed in cui ero cresciuto. Da allenatore e mental coach ho capito che tutto quello che si trova attorno all’atleta è fondamentale.

La vita dell’atleta è un percorso di crescita, lento e graduale.

Il ragazzo va stimolato, fatto crescere in un ambiente positivo e con i messaggi giusti.

Va trasmessa la voglia di migliorarsi sempre, va insegnato che non esistono sconfitte o fallimenti: esistono esperienze che permettono di sviluppare nuovi progetti e di avere nuovi stimoli.

Va fatto maturare, gli vanno fatte conoscere le sue capacità e aiutato a prendere coscienza dell’importanza della dedizione e del sacrificio.

 

In Italia, nel rugby ed in altri sport, non abbiamo le persone preparate a fare questo. Abbiamo buoni tecnici e tattici ma non abbiamo coach e dirigenti di alto livello o comunque ne abbiamo pochi. Quando i nostri migliori rugbisti vengono per le partite internazionali non trovano l’ambiente giusto, sono viziati e coccolati o di contro trattati con inutile autorità e non trovano la professionalità e l’organizzazione che hanno nei club stranieri da cui provengono. Qui da noi tutto è superficiale o, paradosso estremo, si dà importanza a cose che nulla c’entrano con la prestazione sportiva. L’atleta non è mai a suo agio, i tempi di ogni cosa da fare sono sempre sbagliati.

 

Voglio citare un episodio che mi colpì parecchio ai tempi in cui ero allenatore della nazionale Under 17. Un paio di giorni prima di una partita con l’Inghilterra a La Spezia c’è stata l’abituale  cena fra dirigenti e allenatori delle due squadre. Queste cene in Italia sono di solito abbastanza lunghe e noiose con discorsi ufficiali e pompose lungaggini. Orbene appena servito il dessert, il capo delegazione inglese (che fra l’altro era pure un ragazzo abbastanza giovane, direi sui 35) con fare deciso si è alzato in piedi, ha pronunciato poche parole di ringraziamento per l’ospitalità ricevuta, ci ha augurato una buona partita, ha consegnato un paio di cravatte e di piattini ai nostri dirigenti che un po’ spiazzati hanno di rimando consegnato i nostri a loro e senza troppe chiacchere la cena si è conclusa. Arrivederci e grazie.
Al momento pensai solo “anvedi ‘sto matto” e non riflettei molto sull’accaduto, ero solo divertito e contento di poter tornare presto in albergo e pensare alla partita.

Ritornandoci sopra ora però ho capito che quel dirigente aveva le idee chiare, non si dovevano sprecare tempo e forze poichè non eravamo noi, intesi come staff, il punto focale di quei giorni, bensì la partita, i ragazzi e la loro preparazione: bisognava quindi tornare presto ad occuparci di loro e concentrare le attenzioni sulle giuste cose.

 

La Federazione Italiana Rugby (FIR), adesso una delle più ricche d’Italia per gli introiti legati al Torneo delle VI Nazioni, si è attivata creando delle accademie per giocatori di alto livello: bene, è un primo passo. Sicuramente in queste accademie  abbiamo ottimi tecnici. Ora però è necessario fare un altro passo in avanti verso lo svecchiamento.

Bisogna fare in modo che i ragazzi oltre all’allenatore tecnico in senso stretto abbiano uno o più allenatori mentali che li aiutino a capire le loro potenzialità, a lavorare sulla concentrazione, sulla motivazione, sugli obiettivi, sui punti deboli e sui difetti.

Mi auspico che la FIR si affidi perciò a bravi mental coach: solo loro conoscono le tecniche necessarie per allenare queste capacità e potranno individuare il graduale percorso da seguire per ottenere la formazione necessaria a creare un’Italia vincente. Il loro lavoro sarà fondamentale per la crescita di tutto il movimento e i risultati verranno prima di quanto si pensi!!