La psicologia è la scienza che studia il comportamento degli individui e i loro processi mentali. Questa scienza ha ampliato, modificato, stravolto concetti che toccano ogni ambito della nostra vita. Le innumerevoli applicazioni che la materia in questione ha trovato e continua a trovare, non possono che dare sostegno a chi ne esalta la sua valenza.

Non serve un veggente, per capire che il ricorso a esperti in psicologia, nei campi più disparati della quotidianità, sarà crescente. La mente umana negli ultimi decenni è stata bersaglio di innumerevoli input (positivi e negativi) che, per quantità, hanno superato di gran lunga gli anni addietro.

La mole di “stimoli esterni” proposti dalla nostra epoca, provoca inevitabilmente un affaticamento mentale non positivo (distress) con effetti riscontrabili in ognuno di noi. Generalizzo volontariamente all’interno di un argomento, dove so che occorrerebbe analizzare caso per caso, le innumerevoli diversità di ognuno di noi.

Sono un allenatore di calcio e vi parlerò delle mie esperienze e dei miei presupposti per il futuro. Ho avuto modo nel corso del tempo di allenare dai bambini di cinque anni agli adulti di quarantotto (unico caso nella mia squadra) e di storie e aneddoti ne ho da raccontare.

 

Per quanto riguarda i bambini, vorrei prendere spunto da un dibattito riportato su un trimestrale per allenatori, tra un mio collega e un docente FIGC (Federazione italiana giuoco calcio). Nella discussione di cui sopra, si arriva al punto in cui l’allenatore domanda; “a livello giovanile,quanto  è importante la figura dello psicologo a supporto dell’allenatore?” e il docente risponde; “riteniamo che un allenatore preparato adeguatamente alla formazione calcistica, possa esprimere sapientemente atteggiamenti e comportamenti, in sintonia con i bisogni concernenti ogni fase evolutiva.”… da qui per me nascono una miriade di considerazioni. Preso atto, che la rivista sopra citata, è considerata la più importante nel nostro campo, vi lascio immaginare l’eco enorme che ha ogni affermazione su di essa pubblicata.

Presunzione, ignoranza, insensibilità, superficialità… sono solo alcuni dei termini che mi vengono in mente, per definire le parole del docente. Non si può parlare di un argomento, a dir poco delicato, non avendo mai trattato i bambini. E’ vero, non si può conoscere la psicologia a menadito, tanto più se non è parte integrante del proprio vivere quotidiano, ma bisogna prendere atto che non si può improvvisare!

I danni che una mal informazione può procurare, sono inimmaginabili e incalcolabili. Penso si possa concordare sul fatto che i piccoli sportivi siano a livello mentale più fragili di un adulto e che quindi possano traslare più facilmente esperienze positive e non, dallo sport alla vita sociale.

Disturbi alla personalità, subiti da episodi di cui sopra, rischiano seriamente di compromettere la crescita e quindi il futuro di ognuno dei giovani che assistiamo. E da qui una domanda “ma noi, chi siamo per decidere dell’avvenire sportivo e non, di un giovane?”…..non siamo nessuno, credetemi.

Parlando di ragazzi più grandi di età tra i 13/15 anni, allenare senza un adeguato approccio mentale, non servirà a nulla al coach. I giovani hanno molti interessi e il calcio è uno dei tanti non l’unico, come gli allenatori vorrebbero che fosse. Per poter dar vita ad un rapporto con i giocatori di questa età è importante riuscire a oltrepassare quella barriera mentale che ognuno di loro erge a protezione del proprio“io”.

 

Non è parlando sempre di calcio o assillando il gruppo con consigli di gioco che si riesce ad entrare nelle loro teste,c i vuole altro.

I giocatori vogliono un amico ancor prima di un allenatore, un consigliere con cui conferire su tematiche che non siano solo calcistiche. È così che ho iniziato ad osservare i miei allievi, per far sì che il nostro dialogo da limitato all’ambito sportivo diventasse totale.

Aumentare gli argomenti di confronto, è stato per me fondamentale, perché così ho ottenuto la fiducia dei miei ragazzi. Dopo questa fase, la mia posizione di leader era ben vista e le menti dei giocatori erano finalmente predisposte ad un adeguato apprendimento. Elasticità e apertura mentale sono state per me molto importanti in quel periodo. Nella stagione successiva invece, ho deciso di cimentarmi nella gestione di una prima squadra, consapevole delle difficoltà in cui mi sarei imbattuto. Il mio incarico, già dall’inizio, si è manifestato impegnativo in quanto ho dovuto reclutare i giocatori da solo e a budget zero (senza poter garantire loro nessun rimborso economico). Ci tengo a chiarire quest’ ultimo aspetto perché è facile fare una squadra con il denaro a disposizione,in caso contrario ti devi basare solo sui rapporti umani.

Ricordo che diedi inizio al mio monologo di presentazione parlando di rispetto, come a porre l’accento su quello che per me è un valore imprescindibile. Ho proseguito, predicando la necessità di formare un gruppo forte al più presto, indispensabile per garantire forza e continuità alla squadra.

Con l’obiettivo principale di curare l’aspetto psicologico dei giocatori abbiamo deciso di effettuare il periodo di preparazione al mare. In spiaggia l’umore era sempre alto e di conseguenza l’apprendimento era ottimale.  Ho sempre pensato che la gestione di un gruppo così grande per numero, e diversificato, sia impossibile per un singolo individuo.

In base a quanto detto, ho deciso di coinvolgere nella conduzione della squadra 6 dei miei giocatori. La scelta di questi ultimi è stata fatta dopo aver osservato tutto il gruppo per giorni e giorni e dopo aver visionato ogni loro comportamento. Ovviamente la mia preferenza è ricaduta su elementi con doti di leadership all’interno dello spogliatoio che già erano diventati dei punti di riferimento per il gruppo. Ad una settimana dall’inizio del campionato ho organizzato una cena in cui ho invitato coloro che sarebbero stati i pilastri del mio progetto.

Ho mostrato da subito grande umiltà e disponibilità al dialogo e in questo modo ognuno si è sentito coinvolto. Questa cena è stata molto importante perché ha intensificato il rapporto tra me e il gruppo portante della squadra, con risvolti positivi, riscontrati in tutta la stagione.

Vi racconto brevemente un episodio risalente a quel periodo a supporto delle mie idee. Nella rosa dei miei giocatori avevo un ragazzo molto dotato tecnicamente, ma che aveva ad inizio stagione una brutta fama. Il giovane di cui sopra era famoso per non aver mai completato una stagione sportiva con una società, dicembre per lui era il mese cruciale. Tutti, compresi i miei collaboratori, mi ripetevano di non farci affidamento perché, di lì a poco, non lo avrei più visto: io ascoltavo e predicavo fiducia. Ero sicuro di me, perché sapevo quello che, con i miei dialoghi, avevo dato al ragazzo e mi fidavo di lui. È arrivato dicembre e, come da pronostico, a Gennaio il ragazzo non si è presentato agli allenamenti. Inutile dirvi come tutti se lo aspettavano tranne me. Io credevo ancora in lui. Ho fatto in modo che nessuno contattasse il giocatore perché secondo me noi perdevamo tanto con la sua assenza ma lui lasciava un gruppo fantastico e doveva capirlo da solo.

Dopo una settimana il campione è tornato e in un rapido dialogo tra di noi mi ha confidato che non riusciva a stare lontano dalla squadra.

La mia soddisfazione più grande è stata quella di vedere la felicità sul volto del mio giocatore al ritorno agli allenamenti.

Signori credetemi, questi accadimenti per la loro semplicità e genuinità, gratificano più di tante vittorie sul campo. Questo per chiarire cosa intendo per qualità dei rapporti e come mi ostino a perseguirla.

Io credo nei miei giocatori e nei benefici che un confronto continuo e sincero possa provocare. A me piace osservare e studiare ogni mio allievo, in ogni sfaccettatura, da quando arriva al parcheggio del campo, a quando si ferma per due chiacchiere e una sigaretta a fine allenamento e traggo le mie conclusioni. Attenzione, l’idea che mi faccio è relativa al momento perché la metto in continua discussione in una mia personale e interminabile indagine verso gli altri e verso me stesso. Io non dico che il mio modo di fare rappresenti la verità assoluta, ma è semplicemente l’idea che mi sento di perseguire.

Io sinceramente potendo scegliere tra un qualsiasi tipo di aiuto al mio lavoro di allenatore sul campo, opterei senza dubbio per un mental coach. Un giocatore può essere un campione, star bene fisicamente, ma se non è al 100% a livello mentale non riuscirà mai ad esprimersi! Credo invece nel contrario e quindi nel fatto che un calciatore, anche se non fortissimo o debilitato fisicamente, possa fare cose inimmaginabili grazie alla sua forza di volontà. Per quanto mi riguarda, alleno a livello dilettantistico e non ho la possibilità di affiancarmi un esperto in mental coaching, anche comprendendone l’importanza. Farò di tutto, per ampliare le mie conoscenze nell’ambito delle tecniche di allenamento mentale, perché ritengo ciò essenziale per una mia crescita professionale.